<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=1500520490268011&amp;ev=PageView&amp;noscript=1"> Imparare un "MESTIERE" a 36 anni: è fattibile o fuori discussione? | Page 2 | Il Forum di Quattroruote

Imparare un "MESTIERE" a 36 anni: è fattibile o fuori discussione?

Abbiamo segnali diversi.
Qui:
-Multinazionale ha licenziato ( gratis ) un ragazzo dopo 3 anni
( e quindi cade pure l' assioma: insegno e quindi non licenzio )
e ne ha preso uno nuovo
-Un bagnino ( 19 anni ) stagionale l' han preso a fare il saldatore
-Un altro il magazziniere
-Un cameriere a fare il cassiere in Supermercato
-Un aiuto cuoco e' andato a lavorare in libreria....
 
Io parlo basandomi su quello che ho appreso nel mio lavoro nel ambito informatico ed in questo l'esperienza conta per alcuni aspetti, a mio avviso nelle questioni inerenti al saper lavorare in team o al modo in cui affrontare le problematiche, ma per altri aspetti invece può essere una palla al piede perché in un ambiente in continuo cambiamento non ti fa essere pronto a nuove sfide e ti fossilizza su metodologie superate che tu invece conosci a menadito.
 
Ma se anche "vivere" deve diventare una sfida, una guerra tutti i giorni, contro tutto e tutti, allora ditemi che senso ha parlare di "civiltà", tanto vale tornare allo stato "naturale" e azzannarsi per il cibo, per il territorio, in un mondo primitivo, il più forte sopravvive, il debole soccombe.
Un discorso è l'ambito lavorativo, la continua evoluzione crea uno stato di tensione, o ti adatti altrimenti resti indietro: ok, lo stress positivo (eustress) è uno dei motori motivazionali più forti, insieme alla competizione, porta spesso al risultato, e la somma di tutti i nostri singoli risultati (sudati) concorre a quello che chiamiamo progresso.
Ma l'assioma "o accetti le sfide oppure arrivederci" quando dietro la parola sfida si nascondono il sopruso, lo sfruttamento, il furto della dignità di una persona, io non lo accetto.
Se l'obbiettivo è la spersonalizzazione e la riduzione di una persona a solo mero fornitore di una prestazione, sempre sotto la spada di Damocle della sostituibilità istantanea, beh secondo me questa non è più civiltà, ma un incubo terrificante.
Peggio di una guerra, almeno il nemico lo vedo in faccia.
Il problema è che, chi più o chi meno, questo incubo lo viviamo tutti i giorni, e ce lo vogliono far passare per normalità.
Bei tempi, quando il popolo prendeva i forconi e faceva le rivoluzioni...
 
Ma se anche "vivere" deve diventare una sfida, una guerra tutti i giorni, contro tutto e tutti, allora ditemi che senso ha parlare di "civiltà", tanto vale tornare allo stato "naturale" e azzannarsi per il cibo, per il territorio, in un mondo primitivo, il più forte sopravvive, il debole soccombe.
Un discorso è l'ambito lavorativo, la continua evoluzione crea uno stato di tensione, o ti adatti altrimenti resti indietro: ok, lo stress positivo (eustress) è uno dei motori motivazionali più forti, insieme alla competizione, porta spesso al risultato, e la somma di tutti i nostri singoli risultati (sudati) concorre a quello che chiamiamo progresso.
Ma l'assioma "o accetti le sfide oppure arrivederci" quando dietro la parola sfida si nascondono il sopruso, lo sfruttamento, il furto della dignità di una persona, io non lo accetto.
Se l'obbiettivo è la spersonalizzazione e la riduzione di una persona a solo mero fornitore di una prestazione, sempre sotto la spada di Damocle della sostituibilità istantanea, beh secondo me questa non è più civiltà, ma un incubo terrificante.
Peggio di una guerra, almeno il nemico lo vedo in faccia.
Il problema è che, chi più o chi meno, questo incubo lo viviamo tutti i giorni, e ce lo vogliono far passare per normalità.
Bei tempi, quando il popolo prendeva i forconi e faceva le rivoluzioni...
E se non lo vivi adesso (o poco) probabilmente lo vivrai... forse ancora peggio perché se devi farlo dall'inizio è diverso che trovarti buttato dentro all'improvviso
 
Ma se anche "vivere" deve diventare una sfida, una guerra tutti i giorni, contro tutto e tutti, allora ditemi che senso ha parlare di "civiltà", tanto vale tornare allo stato "naturale" e azzannarsi per il cibo, per il territorio, in un mondo primitivo, il più forte sopravvive, il debole soccombe.
Un discorso è l'ambito lavorativo, la continua evoluzione crea uno stato di tensione, o ti adatti altrimenti resti indietro: ok, lo stress positivo (eustress) è uno dei motori motivazionali più forti, insieme alla competizione, porta spesso al risultato, e la somma di tutti i nostri singoli risultati (sudati) concorre a quello che chiamiamo progresso.
Ma l'assioma "o accetti le sfide oppure arrivederci" quando dietro la parola sfida si nascondono il sopruso, lo sfruttamento, il furto della dignità di una persona, io non lo accetto.
Se l'obbiettivo è la spersonalizzazione e la riduzione di una persona a solo mero fornitore di una prestazione, sempre sotto la spada di Damocle della sostituibilità istantanea, beh secondo me questa non è più civiltà, ma un incubo terrificante.
Peggio di una guerra, almeno il nemico lo vedo in faccia.
Il problema è che, chi più o chi meno, questo incubo lo viviamo tutti i giorni, e ce lo vogliono far passare per normalità.
Bei tempi, quando il popolo prendeva i forconi e faceva le rivoluzioni...

Perdonami ma un discorso è la precarieta portata a sistema che crea tutti i risvolti negativi che tu elenchi, un altro è un mondo del lavoro che di per se è in continua evoluzione e per cui occorre stargli dietro, ovviamente non è così per tutte le professioni, ma per quelle tra virgolette moderne si. Io ti faccio l'esempio del informatico, di solito è una figura che ogni tot di anni deve studiare nuove tecnologie perché è normale che le vecchie sono obsolete e vengono pian pianino dismesse, di solito poi cambia spesso sede di lavoro e colleghi perché passa da un cliente al altro, ma questa è la normalità e ti ci abitui, nella mentalità nostrana del lavoratore medio di altre categorie queste invece sono cose intollerabili, anche il solo cambiare sede lavorativa viene vissuto come un dramma, io trovo questa un modo ormai non più possibile di concepire il lavoro.
 
Abbiamo segnali diversi.
Qui:
-Multinazionale ha licenziato ( gratis ) un ragazzo dopo 3 anni
( e quindi cade pure l' assioma: insegno e quindi non licenzio )
e ne ha preso uno nuovo
-Un bagnino ( 19 anni ) stagionale l' han preso a fare il saldatore
-Un altro il magazziniere
-Un cameriere a fare il cassiere in Supermercato
-Un aiuto cuoco e' andato a lavorare in libreria....


Comunque sono decenni che vige la dequalificazione professionale. Leggevo proprio l'altro ieri che su 100 laureati in ingegneria con laurea quinquennale solo 4 fanno il lavoro di ingegnere. Tutti gli altri fanno i venditori o i tecnici o sono impegnati nel marketing, ma appunto solo 4 fanno il lavoro per cui si sono formati
 
Perdonami ma un discorso è la precarieta portata a sistema che crea tutti i risvolti negativi che tu elenchi, un altro è un mondo del lavoro che di per se è in continua evoluzione e per cui occorre stargli dietro, ovviamente non è così per tutte le professioni, ma per quelle tra virgolette moderne si. Io ti faccio l'esempio del informatico, di solito è una figura che ogni tot di anni deve studiare nuove tecnologie perché è normale che le vecchie sono obsolete e vengono pian pianino dismesse, di solito poi cambia spesso sede di lavoro e colleghi perché passa da un cliente al altro, ma questa è la normalità e ti ci abitui, nella mentalità nostrana del lavoratore medio di altre categorie queste invece sono cose intollerabili, anche il solo cambiare sede lavorativa viene vissuto come un dramma, io trovo questa un modo ormai non più possibile di concepire il lavoro.
Condivido il ragionamento, e dal punto di vista del mondo del lavoro e delle mutate (e continuamente mutanti) modalità con cui è necessario approcciarsi diciamo "operativamente", la Tua analisi è molto realistica.
Io ho iniziato a progettare usando tecnigrafo, carta da lucido, matita e rapidograph.
Poi è arrivato il cad, prima 2D poi 3D, adesso si parte con il BIM (building information modeling), ai quali non ho mai opposto resistenza, anzi la mia educazione lavorativa e mentalità mi ha sempre spinto ad usarli da subito, per acquisire un vantaggio professionale, ritenendoli delle opportunità da sfruttare.
Ci sono settori in cui è necessario aggiornarsi più frequentemente, altri meno, ma questa necessità deve rimanere relegata all’ambito lavorativo, ed essere considerata un aspetto del lavoro, il saper “come” fare” deve essere parte integrante del “fare”, l’ uno in funzione dell’altro.
Col lavoro, oltre che sostentarci, possiamo inoltre aspirare anche ad una crescita personale, essendo obbligati a confrontarci continuamente con gli altri, e gli altri con noi, ed ad una crescita culturale in senso generale del termine, inteso come miglioramento della persona.
Ma non siamo tutti uguali, non è possibile immaginare una società che pretenda da tutti elasticità, adattabilità, senso di sfida, competitività.
E’ assurdo pretendere “o sei un Einstein o non sei nessuno” e diffondere messaggi di questo tono.
Ci stiamo scordando che il mondo è fatto di persone “normali”, non in senso diminutivo o dispregiativo, ma che vogliono vivere condividendo il fatto che il lavoro è parte della vita, non la vita, e non necessariamente si deve ogni giorno inventare qualcosa, accettare una nuova sfida, far fuori (metaforicamente) un concorrente e rivelarsi dei “vincenti”.
E che “normali” sono le aspettative, che IMHO sono “biologicamente” inserite nella nostra dotazione genetica: desiderio di stabilità, di certezza di un futuro, aspetti a cui sono automaticamente collegati il desiderio di mettere su famiglia, di avere ed educare dei figli, di potersi permettere una casa ( propria o di pagarsi l’ affitto), di avere delle tutele sociali, di una vecchiaia serena.
Si parla tanto di decrescita in termini economici, ma se non diamo ascolto ai segnali di decadenza che tutti i giorni riceviamo, sarà la nostra stessa natura umana a ritorcersi contro di noi.
Pretendere di adattare forzatamente con mezzi economici l’uomo per piegarlo, costringerlo ad adattarsi alle esigenze di certi modelli di sviluppo è semplicemente una follia, messa in atto in nome di una crescita contro natura.
 
Condivido il ragionamento, e dal punto di vista del mondo del lavoro e delle mutate (e continuamente mutanti) modalità con cui è necessario approcciarsi diciamo "operativamente", la Tua analisi è molto realistica.
Io ho iniziato a progettare usando tecnigrafo, carta da lucido, matita e rapidograph.
Poi è arrivato il cad, prima 2D poi 3D, adesso si parte con il BIM (building information modeling), ai quali non ho mai opposto resistenza, anzi la mia educazione lavorativa e mentalità mi ha sempre spinto ad usarli da subito, per acquisire un vantaggio professionale, ritenendoli delle opportunità da sfruttare.
Ci sono settori in cui è necessario aggiornarsi più frequentemente, altri meno, ma questa necessità deve rimanere relegata all’ambito lavorativo, ed essere considerata un aspetto del lavoro, il saper “come” fare” deve essere parte integrante del “fare”, l’ uno in funzione dell’altro.
Col lavoro, oltre che sostentarci, possiamo inoltre aspirare anche ad una crescita personale, essendo obbligati a confrontarci continuamente con gli altri, e gli altri con noi, ed ad una crescita culturale in senso generale del termine, inteso come miglioramento della persona.
Ma non siamo tutti uguali, non è possibile immaginare una società che pretenda da tutti elasticità, adattabilità, senso di sfida, competitività.
E’ assurdo pretendere “o sei un Einstein o non sei nessuno” e diffondere messaggi di questo tono.
Ci stiamo scordando che il mondo è fatto di persone “normali”, non in senso diminutivo o dispregiativo, ma che vogliono vivere condividendo il fatto che il lavoro è parte della vita, non la vita, e non necessariamente si deve ogni giorno inventare qualcosa, accettare una nuova sfida, far fuori (metaforicamente) un concorrente e rivelarsi dei “vincenti”.
E che “normali” sono le aspettative, che IMHO sono “biologicamente” inserite nella nostra dotazione genetica: desiderio di stabilità, di certezza di un futuro, aspetti a cui sono automaticamente collegati il desiderio di mettere su famiglia, di avere ed educare dei figli, di potersi permettere una casa ( propria o di pagarsi l’ affitto), di avere delle tutele sociali, di una vecchiaia serena.
Si parla tanto di decrescita in termini economici, ma se non diamo ascolto ai segnali di decadenza che tutti i giorni riceviamo, sarà la nostra stessa natura umana a ritorcersi contro di noi.
Pretendere di adattare forzatamente con mezzi economici l’uomo per piegarlo, costringerlo ad adattarsi alle esigenze di certi modelli di sviluppo è semplicemente una follia, messa in atto in nome di una crescita contro natura.

Concordo in toto sulla tua riflessione, nel azienda per cui ora lavora ad esempio si chiarisce subito le aspettative che ogni neo assunto ripone ed il grado di impegno che può devolvere alla carriera, dato che occorrono sia figure che dedicano la maggior parte della giornata al lavoro e figure più standard per cui il lavoro si esplicita nelle 8 ore contrattuali e una volta effettuate queste esiste la vita privata, si dice chiaramente a quale delle due categorie si vuole essere impiegati e la scelta viene rispettata, probabilmente una società giusta dovrebbe dare la possibilità ad ognuno di effettuare una scelta del genere garantendo comunque al minimo le possibilità per una vita dignitosa in tutta tranquillità. Però temo che oltre ad essere il sistema economico che impone di adeguare la nostra vita alla carriera siamo un poco tutti noi che, forse senza rendercene conto, desideriamo un consumismo che necessita di questo. Ti faccio l'esempio più banale ma forse più chiaro, l'apertura dei negozi la domenica, io ho poco più di 40 anni e ricordo quando anni fa in quel giorno erà tutto chiuso, mi sembra che si campava lo stesso, anzi era credo un giorno di rottura con la normale quotidianità, ora sembra che se non si ha a disposizione il supermercato o il centro commerciale per tutti i giorni della settimana si rischia di morire di fame, questo credo che sia da una parte un imposizione del sistema economico ma che viene anche motivato e spinto dal volere della società.
 
Concordo in toto sulla tua riflessione, nel azienda per cui ora lavora ad esempio si chiarisce subito le aspettative che ogni neo assunto ripone ed il grado di impegno che può devolvere alla carriera, dato che occorrono sia figure che dedicano la maggior parte della giornata al lavoro e figure più standard per cui il lavoro si esplicita nelle 8 ore contrattuali e una volta effettuate queste esiste la vita privata, si dice chiaramente a quale delle due categorie si vuole essere impiegati e la scelta viene rispettata, probabilmente una società giusta dovrebbe dare la possibilità ad ognuno di effettuare una scelta del genere garantendo comunque al minimo le possibilità per una vita dignitosa in tutta tranquillità. Però temo che oltre ad essere il sistema economico che impone di adeguare la nostra vita alla carriera siamo un poco tutti noi che, forse senza rendercene conto, desideriamo un consumismo che necessita di questo. Ti faccio l'esempio più banale ma forse più chiaro, l'apertura dei negozi la domenica, io ho poco più di 40 anni e ricordo quando anni fa in quel giorno erà tutto chiuso, mi sembra che si campava lo stesso, anzi era credo un giorno di rottura con la normale quotidianità, ora sembra che se non si ha a disposizione il supermercato o il centro commerciale per tutti i giorni della settimana si rischia di morire di fame, questo credo che sia da una parte un imposizione del sistema economico ma che viene anche motivato e spinto dal volere della società.
Certo chi vuole fare carriera deve lavorare più delle otto ore, ma poi riesce a farla? certamente no, perchè l'italia è un paese che dopo il 68 ha buttato alle ortiche la meritocrazia e non è importante essere e saper fare, ma apparire e stringere relazioni. Come ho avuto a dire la decrescita esiste già e da parecchi anni, ma non è certo felice. Già va bene se uno riesce a conservare il proprio grado di povertà, perchè basta un niente per peggiorare la propria situazione sociale e non esistono ascensori sociali o career-path. Niente di niente se uno non è disposto a fare, scusate il termine il leccacu.lo. Ho 67 anni e a novembre vado in pensione. I miei studi sono stati esaustivi. Mi sono laureato ad appena 24 anni compiuti in ingegneria elettronica e ho preso un MBA ad Harvard. Ho lavorato per tanti anni ricoprendo incarichi di DG e AD in diverse multinazionali, ma se dovessi rispondere alla domanda se è valso tutto ciò ovvero dedicarsi anima e corpo al lavoro, la mia risposta è certamente negativa. Non ricordo un compleanno di mio figlio in cui era piccolo e in cui io sia stato presente e ora che lui ha 40 anni, la cosa mi pesa quanto un macigno.

Non è giusto che ci sia questa necessità di cercare di migliorare la propria posizione sociale solo sacrificando la propria vita. Mio padre era diventato vice direttore generale dell'inam (oggi ASL), ma non ha dovuto sacrificare la propria famiglia per potere fare carriera, e certo lui non ha dovuto prendere un MBA per aspirare quelle posizioni. Ma il mondo di ieri era meno cinico, non permetteva che in nome del dio pubblicità si potessero scialacquare 11 milioni di euro o strapagare un calciatore. Che dire? noi vecchi non lasciamo certo un bel futuro a voi giovani.
 
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