Di Gianluca Pellegrini- maggio 2024.
"I porti del Nord Europa si stanno trasformando in parcheggi, perché i costruttori cinesi stanno lasciando le automobili nei terminal. Il motivo all'apparenza è semplice:
BYD, Great Wall, Chery e Saic – ovvero le
Case più aggressive nei confronti del mercato europeo – accelerano le esportazioni
perché vogliono anticipare eventuali dazi
europei (che alcuni Paesi vorrebbero, come
la Francia, e altri no, come la Germania, per
paura di sempre possibili ritorsioni). Quindi
"spingono metallo", come si dice in gergo,
verso il Vecchio Continente, pur consapevoli che le immatricolazioni di elettriche stanno
calando un po' ovunque (in Germania, tolti
gl’incentivi, il segmento è crollato del 30%
rispetto all’anno scorso) e che le reti di distribuzione nei vari mercati non sono ancora pronte. Da qui la congestione che sta
mettendo in crisi un settore già da tempo in
difficoltà come la logistica: a Bremerhaven,
il gestore del secondo terminal automobilistico europeo per volumi movimentati, la
Blg Logistics, dice chiaramente che fino a
quando i tedeschi non rimetteranno in funzione gli aiuti di Stato (ma pare improbabile)
la situazione non cambierà; e la norvegese
United European Car Carriers ha definito
«molto frustranti» i ritardi subiti a Livorno e al Pireo. Questa la ragione contingente. Ma
dietro il maxi ingorgo di macchine senza ancora un padrone si nasconde un problema
ben più complesso: ovvero la sovracapacità
produttiva dell’economia cinese.
Negli ultimi anni, il governo di Pechino ha
alimentato una crescita forsennata del proprio comparto automotive per rendere le Case domestiche competitive sul palcoscenico
internazionale. Secondo uno studio del Kiel nstitute, la sola BYD avrebbe ricevuto almeno 3,4 miliardi di euro sotto forma di denaro,
accesso preferenziale a materie prime critiche, trasferimenti forzati di tecnologia da
parte d'investitori stranieri e un trattamento
favorevole negli appalti pubblici e nelle procedure amministrative (e poi c’è il beneficio
indiretto degli aiuti a chi costruisce le batterie
delle sue vetture e quello, valido per tutti, degli sconti a carico della collettività sulle Bev).
La capacità installata è enorme, e ora pletorica rispetto alla domanda in calo del mercato interno. Il governo centrale lo sa e cerca di
modulare in modo dirigistico le operazioni industriali, con risultati però lontani dall’essere
ottimali. Il fatto stesso che la Caam (l’associazione dei costruttori cinesi) citi come un successo da celebrare l’aver raggiunto – e si parla del 2023 – una produttività del 70%, che
per gli standard occidentali è il minimo sindacale, la dice lunga su come stia andando la
vicenda e spiega perché i cinesi trovino più
semplice rovesciare sui nostri lidi l'invenduto
(che, come abbiamo visto, rimane tale anche
qui, ma per loro sono dettagli).
L'Europa inizia a rendersi conto che l'aver
spalancato un'autostrada alle smanie
espansionistiche di Xi Jinping con un Green
Deal completamente inconsapevole delle
sue implicazioni si sta rivelando un suicidio.
Ed è partito il riposizionamento dei politici di punta in vista delle imminenti elezioni. Thierry Breton, commissario al Mercato interno e
all'Industria, ha ammesso che il percorso verso la mobilità a zero emissioni (ndr: allo scarico) da lui stesso sostenuto è in pesante ritardo e che il «Green Deal non sarà raggiunto con la bacchetta magica o con un ordine
esecutivo di Bruxelles. Tutte le condizioni
abilitanti devono essere soddisfatte». Per
meglio spiegare il concetto, ha approntato
un documento che riassume i cinque
motivi per cui l'Europa non è pronta a
fare il grande passo verso l'elettrico. Il
ritmo d'adozione è lento («le vendite di
nuovi veicoli elettrici dovranno crescere di sette volte entro il 2035 per soddisfare la domanda prevista»); le automobili rimangono troppo care («alla data del 1°
gennaio 2024 non risultano vetture con un
prezzo medio inferiore ai 20 mila euro»); l'infrastruttura di ricarica è concentrata in pochi
Stati e funziona male; si stanno perdendo
troppi posti di lavoro; e le annunciate gigafactory di batterie ancora non si vedono,
«alimentando gravi dipendenze».
Nota conclusiva: «La Cina sta prendendo
il sopravvento: se un’auto elettrica su cinque
venduta in Europa è prodotta in Cina siamo
di fronte a un fenomeno preoccupante». A
me sembra preoccupante che si debba arrivare alla deindustrializzazione dell’economia
europea per rendersi conto di qualcosa che
era palese per chiunque non fosse accecato
dall’ideologia o dall’interesse (o da entrambi).
I costruttori ormai marciano in ordine sparso
assecondando le rispettive priorità, indebolendo il fronte di difesa, e hanno capito che
la politica vuole mettere mano all’impianto
del Fit for 55, cosa che per molti sarebbe un
guaio. Paradosso ancora più sublime, mentre
Bruxelles cerca contromisure per arginare
l’aggressività di Pechino, i governi europei
fanno a gara per attirarne gl’investimenti e
così difendere l’occupazione nazionale. Nei
libri di storia che si studieranno fra 50 anni
questa sarà ricordata come la rivoluzione più
approssimativa della storia economica."