Ecco un bell'articolo su ciò che sostengo io da tempi non sospetti (lo riporto integralmente con i riferimenti editoriali, i grassetti sono miei). Un po' lunghetto ho dovuto dividerlo in due ma vi prego di leggerlo per capire verso quale precipizio ci stanno portando i legislatori europei e di quanto si stia allontanando l'Europa dal resto del mondo:
https://www.corriere.it/pianeta2030...co-c32ffb50-5d5a-11ee-ba9c-b0284e699ccc.shtml
"Dan Yergin è uno dei più grandi esperti al mondo di energia. Già vincitore del Pulitzer per The Prize ( Il Premio: l’epica ricerca di petrolio, denaro e potere, Sperling&Kupfer) è l’autore del recente The New Map ( La nuova mappa: energia, clima e lo scontro tra le nazioni ), in cui racconta come stanno cambiando gli equilibri geopolitici dell’energia. S&P Global, la società di cui è vicepresidente, ha appena pubblicato un rapporto sulla difficoltà dell’offerta di rispondere alla crescente domanda di minerali critici essenziali per la transizione energetica, un anno dopo l’approvazione al Congresso Usa dell’Inflation Reduction Act; e un altro rapporto dell’International Energy Forum e di S&P Global, realizzato sedendosi al tavolo con molti interlocutori del Sud Globale, nota come la narrazione sull’obiettivo “net zero” sia stata finora dominata dal Nord Globale e non possiamo pensare che si realizzi in modo lineare.
«Credo che ci sia un ripensamento oggi sulla transizione energetica, un riconoscimento della sua complessità», ci dice Yergin, che fu anche spesso consultato sull’energia dal presidente Obama. «Questa transizione è totalmente diversa da tutte quelle precedenti. Le altre hanno avuto durata secolare. Qui si cerca di trasformare nel corso di 25 anni una economia mondiale di 100 trilioni di dollari. Credo che oggi a Bruxelles ci si renda conto che le cose non sono le stesse viste dal resto del mondo. Chiaramente c’è un gap tra gli scenari e la retorica da una parte e la realtà dall’altra».
Per lei la transizione è il lavoro di una vita.
«È la mia vocazione. Vivo la New Map ogni giorno. Ho visto le sfide e le opportunità. Ci sono stati molti sviluppi nella tecnologia solare, eolica, ma quest’anno il mondo userà il petrolio più che mai in passato. E i Paesi in via di sviluppo sono concentrati sull’obiettivo della crescita economica ( per la neutralità carbonica ndr) la Cina ha l’obiettivo 2060, l’India il 2070. I Paesi con Pil pro capite 20 volte inferiore ai Paesi sviluppati semplicemente vedono il mondo in modo diverso».
Come si fa a creare un ponte per perseguire interessi comuni?
«Nell’ultimo piano quinquennale cinese la sicurezza energetica viene prima degli obiettivi climatici. Se nel 2021 ci avessero detto che la Germania avrebbe costruito strutture per l’importazione di gas naturale liquefatto avremmo risposto che era una follia e che non sarebbe successo, ma improvvisamente la sicurezza energetica è diventata un tema. Devi garantirla per costruire una transizione sostenibile. Se la tua economia entra in profonda recessione, non hai più le risorse finanziarie da investire nella transizione».
Le politiche per difendere l’ambiente a volte si rivelano controproducenti?
«Ci sono aziende europee che mi dicono che i governi dell’Ue scendono così nei dettagli su quello che si può o non si può fare da tagliare le ali all’innovazione e alla sperimentazione. Questa rigidità è la grossa differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti. L’Ira, l’Inflation Reduction Act, è agnostico: fornisce gli incentivi e tu decidi come procedere».
Il Medio Oriente non è più così centrale dal punto di vista energetico. Quali conseguenze?
«Vedremo un ritorno del Medio Oriente in agenda visto che il prezzo del petrolio sembra destinato ad aumentare. Attirerà l’attenzione dei governi, ma certamente questa è una realtà molto differente dagli anni 70, è un mondo nel quale gli Usa sono il maggior produttore mondiale di gas naturale e petrolio. Inoltre, anche se petrolio e gas continueranno ad essere centrali, ci stiamo muovendo dal mondo di Big Oil a quello di Big Shovel ( letteralmente: grande pala, nel senso di badile ndr): il settore minerario era diventato periferico, ora è una questione geostrategica nella grande geopolitica della competizione tra Stati Uniti e Cina. E ciò si riflette nell’Ira».
Il ministro italiano per le Infrastrutture Urso vuole puntare sulle miniere, ma per le batterie resta cruciale la cooperazione con la Cina.
«C’è grande attenzione sulle miniere e la Cina qui è forte, ma la sua vera forza è nella lavorazione dei materiali. Uno dei ruoli principali dell’Ira è ridurre i rischi (derisking anziché decoupling, ndr) della dipendenza da Pechino per le catene di approvvigionamento. Su batterie, pannelli solari, lavorazione dei minerali, la Cina ha un ruolo predominante. Ciò va bene nel mondo della globalizzazione, ma non viviamo più in quel mondo».
La segretaria Usa del Commercio Gina Raimondo in Cina a fine agosto ha tentato di promuovere il dialogo, al di fuori però delle aree sensibili. È possibile procedere così, su binari paralleli?
«Diventa difficile, si tratta di passi incrementali. C’è una gara tecnologica, forse una guerra tecnologica in corso tra Stati Uniti e Cina. Sui semiconduttori, l’intelligenza artificiale, qualsiasi cosa che sia legata alla tecnologia militare. E c’è pressione crescente sulle aziende americane a non investire in Cina o ridurre gli investimenti. Porre dei guard-rail intorno ad una competizione è difficile con l’andar del tempo, anche perché c’è la questione di Taiwan. Senza Taiwan, forse le cose sarebbero state più gestibili».
Qual è la strategia sulle batterie?
«Gli Stati Uniti stanno cercando di incoraggiare lo sviluppo delle batterie elettriche altrove. È molto costoso se vuoi farlo negli Usa. Ora ci sono polemiche perché i cinesi sono partner in una fabbrica di batterie in Michigan. Loro hanno le capacità, la metà delle auto elettriche sono in Cina. Uno degli obiettivi dell’Ira è appunto di recuperare sulla Cina. Abbiamo calcolato 400 miliardi di dollari di investimenti, l’Ira sta facendo da gigantesco magnete. Ovviamente le compagnie europee e asiatiche stanno spostando l’attenzione verso gli Stati Uniti per via di questi incentivi, il che è molto preoccupante per Bruxelles».
I rapporti con l’Ue sono migliorati con Biden?
«Ci sono stati sforzi, dopo il passaggio dell’Ira, per rassicurare gli europei, per stabilire una partnership sulla sicurezza dei minerali critici. C’è lo sforzo di rimodulare le relazioni, che consentirebbe di applicare agli europei gli incentivi».
Il nucleare è necessario per la transizione?
«In America c’è un revival dell’interesse per il nucleare di nuova generazione. Certo c’è un grosso livello di dipendenza dalla Russia per il trattamento dei combustibili nucleari, anche questo è un tema, ma penso che la storia dirà che la Germania ha fatto un grosso errore chiudendo i suoi impianti nucleari all’improvviso e rendendosi dipendente dal gas russo. Il nucleare è la più ampia fonte di elettricità “carbon free”. Negli Stati Uniti ci sono 60 progetti di ricerca sul nucleare di nuova generazione, in università, aziende e varie istituzioni: c’è il riconoscimento che sarà importante nella transizione energetica. Ma l’altra cosa da dire è che la transizione non sarà lineare ma multidimensionale, sarà diversa nei Paesi del mondo sviluppato e in quelli in via di sviluppo».
La Bidenomics, la sua ricetta economica, verrà riconosciuta come valida? L’Ira ha portato a investimenti importanti anche in Stati repubblicani.
«Nell’Ira c’è qualcosa per tutti: Stati rossi e blu, energie rinnovabili e convenzionali, elettroni e molecole. C’è una questione più ampia e cioè che l’amministrazione Biden sta dicendo che le politiche della globalizzazione economica di Clinton e di Obama sono sbagliate. Sta proponendo politiche più nazionalistiche e industriali, ripudiando la strategia della globalizzazione. In parte per motivi politici e in parte per via della competizione con la Cina. In Giappone di recente mi è stato ricordato che gli Stati Uniti criticavano la sua politica industriale: paradossalmente adesso hanno una massiccia politica industriale su una scala quasi da tempi di guerra. È un grosso capovolgimento delle politiche di Clinton e Obama».
Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan nel discorso di aprile al Brookings Institution sembra rileggere le politiche sulla globalizzazione come il motivo per cui Trump ha vinto.
«È chiaramente una risposta a Trump e alla sua vittoria, un tentativo di comprendere perché hanno perso nel 2016, e perché hanno perso la classe media».
https://www.corriere.it/pianeta2030...co-c32ffb50-5d5a-11ee-ba9c-b0284e699ccc.shtml
"Dan Yergin è uno dei più grandi esperti al mondo di energia. Già vincitore del Pulitzer per The Prize ( Il Premio: l’epica ricerca di petrolio, denaro e potere, Sperling&Kupfer) è l’autore del recente The New Map ( La nuova mappa: energia, clima e lo scontro tra le nazioni ), in cui racconta come stanno cambiando gli equilibri geopolitici dell’energia. S&P Global, la società di cui è vicepresidente, ha appena pubblicato un rapporto sulla difficoltà dell’offerta di rispondere alla crescente domanda di minerali critici essenziali per la transizione energetica, un anno dopo l’approvazione al Congresso Usa dell’Inflation Reduction Act; e un altro rapporto dell’International Energy Forum e di S&P Global, realizzato sedendosi al tavolo con molti interlocutori del Sud Globale, nota come la narrazione sull’obiettivo “net zero” sia stata finora dominata dal Nord Globale e non possiamo pensare che si realizzi in modo lineare.
«Credo che ci sia un ripensamento oggi sulla transizione energetica, un riconoscimento della sua complessità», ci dice Yergin, che fu anche spesso consultato sull’energia dal presidente Obama. «Questa transizione è totalmente diversa da tutte quelle precedenti. Le altre hanno avuto durata secolare. Qui si cerca di trasformare nel corso di 25 anni una economia mondiale di 100 trilioni di dollari. Credo che oggi a Bruxelles ci si renda conto che le cose non sono le stesse viste dal resto del mondo. Chiaramente c’è un gap tra gli scenari e la retorica da una parte e la realtà dall’altra».
Per lei la transizione è il lavoro di una vita.
«È la mia vocazione. Vivo la New Map ogni giorno. Ho visto le sfide e le opportunità. Ci sono stati molti sviluppi nella tecnologia solare, eolica, ma quest’anno il mondo userà il petrolio più che mai in passato. E i Paesi in via di sviluppo sono concentrati sull’obiettivo della crescita economica ( per la neutralità carbonica ndr) la Cina ha l’obiettivo 2060, l’India il 2070. I Paesi con Pil pro capite 20 volte inferiore ai Paesi sviluppati semplicemente vedono il mondo in modo diverso».
Come si fa a creare un ponte per perseguire interessi comuni?
«Nell’ultimo piano quinquennale cinese la sicurezza energetica viene prima degli obiettivi climatici. Se nel 2021 ci avessero detto che la Germania avrebbe costruito strutture per l’importazione di gas naturale liquefatto avremmo risposto che era una follia e che non sarebbe successo, ma improvvisamente la sicurezza energetica è diventata un tema. Devi garantirla per costruire una transizione sostenibile. Se la tua economia entra in profonda recessione, non hai più le risorse finanziarie da investire nella transizione».
Le politiche per difendere l’ambiente a volte si rivelano controproducenti?
«Ci sono aziende europee che mi dicono che i governi dell’Ue scendono così nei dettagli su quello che si può o non si può fare da tagliare le ali all’innovazione e alla sperimentazione. Questa rigidità è la grossa differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti. L’Ira, l’Inflation Reduction Act, è agnostico: fornisce gli incentivi e tu decidi come procedere».
Il Medio Oriente non è più così centrale dal punto di vista energetico. Quali conseguenze?
«Vedremo un ritorno del Medio Oriente in agenda visto che il prezzo del petrolio sembra destinato ad aumentare. Attirerà l’attenzione dei governi, ma certamente questa è una realtà molto differente dagli anni 70, è un mondo nel quale gli Usa sono il maggior produttore mondiale di gas naturale e petrolio. Inoltre, anche se petrolio e gas continueranno ad essere centrali, ci stiamo muovendo dal mondo di Big Oil a quello di Big Shovel ( letteralmente: grande pala, nel senso di badile ndr): il settore minerario era diventato periferico, ora è una questione geostrategica nella grande geopolitica della competizione tra Stati Uniti e Cina. E ciò si riflette nell’Ira».
Il ministro italiano per le Infrastrutture Urso vuole puntare sulle miniere, ma per le batterie resta cruciale la cooperazione con la Cina.
«C’è grande attenzione sulle miniere e la Cina qui è forte, ma la sua vera forza è nella lavorazione dei materiali. Uno dei ruoli principali dell’Ira è ridurre i rischi (derisking anziché decoupling, ndr) della dipendenza da Pechino per le catene di approvvigionamento. Su batterie, pannelli solari, lavorazione dei minerali, la Cina ha un ruolo predominante. Ciò va bene nel mondo della globalizzazione, ma non viviamo più in quel mondo».
La segretaria Usa del Commercio Gina Raimondo in Cina a fine agosto ha tentato di promuovere il dialogo, al di fuori però delle aree sensibili. È possibile procedere così, su binari paralleli?
«Diventa difficile, si tratta di passi incrementali. C’è una gara tecnologica, forse una guerra tecnologica in corso tra Stati Uniti e Cina. Sui semiconduttori, l’intelligenza artificiale, qualsiasi cosa che sia legata alla tecnologia militare. E c’è pressione crescente sulle aziende americane a non investire in Cina o ridurre gli investimenti. Porre dei guard-rail intorno ad una competizione è difficile con l’andar del tempo, anche perché c’è la questione di Taiwan. Senza Taiwan, forse le cose sarebbero state più gestibili».
Qual è la strategia sulle batterie?
«Gli Stati Uniti stanno cercando di incoraggiare lo sviluppo delle batterie elettriche altrove. È molto costoso se vuoi farlo negli Usa. Ora ci sono polemiche perché i cinesi sono partner in una fabbrica di batterie in Michigan. Loro hanno le capacità, la metà delle auto elettriche sono in Cina. Uno degli obiettivi dell’Ira è appunto di recuperare sulla Cina. Abbiamo calcolato 400 miliardi di dollari di investimenti, l’Ira sta facendo da gigantesco magnete. Ovviamente le compagnie europee e asiatiche stanno spostando l’attenzione verso gli Stati Uniti per via di questi incentivi, il che è molto preoccupante per Bruxelles».
I rapporti con l’Ue sono migliorati con Biden?
«Ci sono stati sforzi, dopo il passaggio dell’Ira, per rassicurare gli europei, per stabilire una partnership sulla sicurezza dei minerali critici. C’è lo sforzo di rimodulare le relazioni, che consentirebbe di applicare agli europei gli incentivi».
Il nucleare è necessario per la transizione?
«In America c’è un revival dell’interesse per il nucleare di nuova generazione. Certo c’è un grosso livello di dipendenza dalla Russia per il trattamento dei combustibili nucleari, anche questo è un tema, ma penso che la storia dirà che la Germania ha fatto un grosso errore chiudendo i suoi impianti nucleari all’improvviso e rendendosi dipendente dal gas russo. Il nucleare è la più ampia fonte di elettricità “carbon free”. Negli Stati Uniti ci sono 60 progetti di ricerca sul nucleare di nuova generazione, in università, aziende e varie istituzioni: c’è il riconoscimento che sarà importante nella transizione energetica. Ma l’altra cosa da dire è che la transizione non sarà lineare ma multidimensionale, sarà diversa nei Paesi del mondo sviluppato e in quelli in via di sviluppo».
La Bidenomics, la sua ricetta economica, verrà riconosciuta come valida? L’Ira ha portato a investimenti importanti anche in Stati repubblicani.
«Nell’Ira c’è qualcosa per tutti: Stati rossi e blu, energie rinnovabili e convenzionali, elettroni e molecole. C’è una questione più ampia e cioè che l’amministrazione Biden sta dicendo che le politiche della globalizzazione economica di Clinton e di Obama sono sbagliate. Sta proponendo politiche più nazionalistiche e industriali, ripudiando la strategia della globalizzazione. In parte per motivi politici e in parte per via della competizione con la Cina. In Giappone di recente mi è stato ricordato che gli Stati Uniti criticavano la sua politica industriale: paradossalmente adesso hanno una massiccia politica industriale su una scala quasi da tempi di guerra. È un grosso capovolgimento delle politiche di Clinton e Obama».
Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan nel discorso di aprile al Brookings Institution sembra rileggere le politiche sulla globalizzazione come il motivo per cui Trump ha vinto.
«È chiaramente una risposta a Trump e alla sua vittoria, un tentativo di comprendere perché hanno perso nel 2016, e perché hanno perso la classe media».
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