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L'ultimo Salone di Parigi si chiude oggi con un'unica, incontrovertibile, certezza: l'auto elettrica è una realtà. Una realtà non solo ideologica, ma anche industriale. Chissà, sarà il progressivo aumentare del prezzo del petrolio (spaventoso segnale di una definitiva crisi dei combustibili fossili che prima o poi scatenerà una rivoluzione economica globale) o sarà una quasi incredibile presa di coscienza da parte delle lobby industriali; non è dato saperlo: sta di fatto che l'industria si è finalmente orientata.
ALTRO CHE MODERNA
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l'auto elettrica non è un fenomeno moderno. Non è neanche il frutto di quel germe ecologista nato alla fine degli anni '60 ed amplificatosi con le crisi energetiche del decennio successivo. Assolutamente no: agli esordi della motorizzazione ? a fine Ottocento ? il motore elettrico è stato un temibile, pericolosissimo ? e insospettato - concorrente del motore endotermico. Se non altro perchè era una tecnologia già consolidata, già ampiamente utilizzata in campo industriale. La prima carrozza automobile, modificata con un motore elettrico, la si deve allo scozzese Anderson. Erano gli anni '30 dell'Ottocento, quando era ormai noto che il vapore era solo una tecnologia scomoda e pesante e circa vent'anni prima dell'invenzione di Barsanti e Matteucci destinata a cambiare il mondo: il motore a scoppio. Per tutto l'Ottocento, l'elettrico sembrava essere la naturale soluzione da destinare al futuro dell'automobile: si trattava di un prodotto d'èlite ed apprezzato, visto che le esigenze dell'epoca non richiedevano prestazioni elevate in senso assoluto (mediamente le prime automobili elettriche avevano velocità massime nell'ordine dei trenta orari). L'unico freno allo sviluppo erano gli accumulatori, che limitavano l'autonomia a poche decine di chilometri e relegavano l'automobile elettrica a poco più che un giocattolo da città. Una prima svolta, in senso positivo, si ebbe nel 1859, quando il francese Gaston Planté concepì l'accumulatore al piombo, con lastre immerse in una soluzione di acqua distillata e acido solforico. L'idea era vincente, tanto da essere utilizzata ancora oggi, e permise un sensibile miglioramento dell'autonomia.
LA JAMAIS CONTENTE
Lo sviluppo del motore elettrico, nell'Ottocento, raggiunse il suo massimo splendore nel 1899 con la creatura del belga Camille Jenatzy, la Jamais Contente, una sorta si siluro su quattro ruote. Jenatzy era intenzionato a raccogliere la sfida della rivista "La France Automobile" per le migliori tecnologie in campo, innescando una lotta senza esclusione di colpi con il francese Gaston de Chasseloup-Laubat. Nel gennaio del 1899 Jenatzy e la sua creatura (che una leggenda ne vuole legato il nome all'insignificante autonomia), raggiunsero la velocità di 66.5 km/h, limite subito innalzato a 70 km/h da de Chasseloup-Laubat. La sfida ormai era lanciata: in una seconda gara de Chasseloup-Laubat superò gli 80 km/h e in una terza, lo stesso, arrivò al traguardo dei 94 km/h, mentre Jenatzy fu costantemente costretto al ritiro da varie noie meccaniche. Tutto ciò non fece demordere il belga che, nel maggio dello stesso anno, con una Jamais Contente adeguatamente aggiornata nella gestione della potenza, raggiunse l'incredibile velocità di 105.88 km/h, superando per la prima volta nella storia dell'automobile il traguardo dei 100 orari e scrivendo un'importante pagina di storia dell'automobilismo. E questo mentre il motore a scoppio per autotrazione muoveva ancora i primi passi.
L'AUTO DIVENTA UN FENOMENO DI MASSA
Ad inizio Novecento, la concorrenza tra il vapore, l'elettrico e l'endotermico era serrata. Negli Stati Uniti il mercato dei veicoli a motore (leggeri e pesanti), vedeva il 40% del parco circolante adottare la propulsione a vapore, il 38% quella elettrica ed il 22% il motore a combustione interna. E proprio in USA, dove l'automobilismo era già un fenomeno di massa, si svilupparono varie aziende come la Backer Electric e la Detroit Electric e la più nota Studebacker, che producevano automobili spesso premiate dal mercato a scapito di modelli concorrenti con motore a benzina. Senza dubbio, l'ago delle prestazioni e dell'autonomia pendeva di più verso il motore a scoppio (sicuramente più duttile), ma l'elettrico garantiva una migliore semplicità, una relativamente elevata affidabilità e, soprattutto, era una tecnologia ?pulita? (non in senso ecologista, ma in senso letterale): le automobili elettriche, per le loro caratteristiche, erano le preferite dalle nobildonne di città poco affini ad armeggiare con radiatori, anticipi, carburatori, punti d'ingrassaggio, fumi vari e odore di olio bruciato. Mentre sul fronte dei trasporti pubblici ? che necessitavano di ben altre infrastrutture ? si faceva largo il concetto di filobus, soppiantando in città gli autobus a petrolio e i pirobus a vapore, la Backer Electric e la Detroit Electric, nonostante la rudimentale tecnologia di controllo della potenza (c'erano le valvole termoioniche e il transistor era solo un'idea), riuscirono a realizzare automobili con autonomie che variavano tra poco meno di 100 ed i 280 km, vendendone alcune migliaia di unità: un traguardo destinato a rimanere quasi del tutto immobile per un intero secolo. Purtroppo le limitatissime prestazioni ? la velocità massima era sempre pari ai fatidici 30 km/h ? a lungo andare ne penalizzarono la diffusione. Negli anni '20 del secolo scorso, la tecnologia era decaduta e già non se ne parlava più.
RISORGERE DALLA CRISI
Per attendere un nuovo sviluppo dell'elettrico bisognerà tuffarsi nell'Europa della Seconda Guerra Mondiale, dove i tecnici Peugeot ? in una piccola officina della Regione Parigina ? produssero in piccolissima serie tra il 1941 e il 1945 un'essenziale utilitaria due posti: la VLV (Voiture Légère de Ville - vettura leggera da città - in questi giorni in mostra a Parigi). Grazie al peso ridotto, meno di 350 kg, la VLV ? realizzata in 377 esemplari - con il suo motore da 1,5 cv e il suo bel pacco di quattro batterie al piombo da 12V sistemate nel cofano anteriore, garantiva ? a chi poteva permettersela ? di girare in automobile nonostante il razionamento dei carburanti. Ovviamente si girava in città, visto che anche la VLV non andava oltre la soglia dei 30 km/h.
LA HENNEY KILOWATT
Terminata la guerra, l'elettrico ricadde nell'oblìo: non aveva senso riconvertire l'industria pesante. E all'industria non conveniva investire denaro in una tecnologia che, seppur con oltre un secolo di maturità, non era mai stata adeguatamente sviluppata. Dal punto di vista degli accumulatori, poi, si era praticamente fermi all'Ottocento. E, senza remore, si era ancora in pieno boom petrolifero. Addirittura negli USA, paradossale patria della motorizzazione elettrica, la trazione a combustibili fossili prese piede anche in ferrovia, dove razionalmente non avrebbe senso. Tuttavia un certa, piccola, parte di tecnici continuava imperterrita a credere nella trazione elettrica e, tra decine di studi indipendenti rigorosamente caduti nel dimenticatoio, emerse nel 1959 la Henney Kilowatt. Il nome era evocativo e l'auto si presentava nel migliore dei modi. Realizzata dalla Henney Motor Company, dello stato di New York, la Kilowatt era realizzata riempiendo la scocca di una Reanult Dauphine con un motore elettrico posteriore e un pacco di accumulatori nel cofano anteriore. Per la prima volta l'elettronica di potenza era a transistor. La prima versione, alimentata a 36V permetteva alla berlinetta di raggiungere la ragguardevole velocità di circa 65 km/h con un'autonomia pari a 65 km (40 mph, 40 mi), mentre la versione del '60, con una nuova elettronica di potenza e alimentata a 72V, raggiungeva i 97 km/h con un'autonomia di 97 km (60 mph, 60 mi). Fu regolarmente messa in vendita, ma ne furono commercializzate circa una trentina. Neanche la Kilowatt, nonostante le buone prestazioni e l'aspetto da comune automobile, riuscì a dare il giusto riscatto alla propulsione elettrica. Tant'è che fino agli anni '80 di elettrico non se ne parlò praticamente più, ad esclusione di pochi studi rimasti allo stadio prototipale, tra i quali acquisirono particolare risalto gli studi Ford (tra cui la Comuta), in cui si cercò di dare una svolta agli accumulatori con nuove tecnologie, la Zagato Zele o la piccola Varzina.
LA SVOLTA MODERNA: LA EV1
Gli studi, quindi, sui veicoli elettrici ripresero in massa negli anni '90, quando ? in Europa ? la Fiat e la Peugeot produssero in serie versioni elettriche delle utilitarie Panda, Cinquecento, Seicento, 106 e Citroen Saxo. I problemi rimanevano i medesimi: prestazioni ed autonomia troppo limitate in relazione al costo dei veicoli (nel frattempo notevolmente lievitato a causa della sempre più raffinata elettronica di potenza). Ma qualcosa stava cambiando: proprio nel 1990 la General Motors presentò il prototipo Impact, una profilatissima coupè che prometteva di rivoluzionare il concetto di auto elettrica. La Impact si trasformò nel 1996 nella EV1: pressochè identica esteticamente e spinta da un propulsore da 102 kW. La EV1 grazie all'ottima elettronica di potenza e ad accumulatori particolarmente efficienti (al pimobo acido prima e al nichel-metal idruro poi), sfoggiava prestazioni di rilievo: 130 km/h limitati (la Impact era accreditata di 160 orari), da 0 a 100 in 8 secondi e un'autonomia variabile fino al limite massimo di 240 km. La EV1 può definirsi la prima automobile elettrica di concezione moderna, che non lesina in prestazioni e presenta una discreta autonomia. Ne furono prodotte meno di 1200 di cui i due terzi distribuiti ad un selezionato pubblico in leasing, attraverso la rete commerciale Saturn, in California ed Ariziona. L'esperimento fu un successo popolare, tanto che l'inaspettato ritiro dal mercato, al termine dei contratti di locazione, senza un'erede scatenò aspre polemiche tra gli ambientalisti, al punto da indurre la realizzazione anche di un film-documentario sulla vicenda: "Who killed the electric car?". In realtà il progetto era sperimentale e tale fu definito fin dall'inizio: contratti di locazione dalla scadenza prefissata e l'impossibilità di acquistarne gli esemplari dismessi (oggi, per altro quasi del tutto distrutti), non lasciava il campo a molti dubbi.
QUANTO COSTA OGGI E QUANDO SI POTRA' COMPRARE
Il progetto EV1 si chiuse del tutto nel 2003, ma a partire già dal 1997 altri costruttori si erano espressi con veicoli dedicati, Honda e Chrysler in testa, mentre altri ancora si dedicarono alla trasformazione di modelli di grande diffusione, come Toyota, Peugeot, Ford e Nissan. Negli ultimi anni, gli accumulatori di maggior diffusione sono passati dal nichel metal-idruro, al nichel-cadmio, fino alla leggere, ma costosa, tecnologia agli ioni di litio. L'ultimo progetto, prima delle elettriche del nuovo millennio, è stata la TH!NK, piccola vetturetta prodotta da una casa indipendente svedese e il cui progetto è stato successivamente sviluppato ed evoluto dalla Ford nei primi anni del 2000. Nel 2008 l'americana Tesla Roadster ha aperto il campo all'automobile elettrica matura, dopo quasi duecento anni, finalmente priva di complessi. Ed eccoci alla svolta: il 2011 avrà in listino l'auto elettrica. Quasi tutti i costruttori - Renault, Nissan, MINI, smart, Peugeot, Opel e Mitsubishi in testa - hanno presentato le loro proposte di grande serie e, sebbene alcuni progetti stentino a decollare (come la Pininfarina Bluecar), l'interesse da parte degli automobilisti è alto. Resta l'incognita del prezzo - che senza incentivi (come accade in Italia) è molto alto (una citycar costa intorno ai 36.000 euro) -, ma in ogni caso abbiamo una grande certezza: finalmente le auto elettriche esistono!
Fonte Omniauto.it