di Gian Luca Pellegrini
Revocherò il mandato (voluto da Joe Biden, ndr) sulle elettriche e i cittadini americani potranno finalmente comprare l'auto che vogliono». Il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non poteva essere più chiaro, nel proprio discorso d'investitura, sul futuro dell'auto americana. L'intenzione del tycoon è di fare strame di quanto messo in atto dalla precedente amministrazione, come dimostra l'immediata decisione di far uscire gli Usa dagli accordi globali sul clima e ritornare alle fonti fossili come motore dell'economia. Sia chiaro: Trump ha sempre rivendicato un'aperta ostilità al green, quindi non si può dire che tali posizioni siano inaudite. Oggi, però, le sue parole hanno un diverso valore, perché pongono idealmente termine a un lungo periodo in cui il solo avanzare timidi dubbi sulla green economy esponeva al ludibrio e all'emarginazione. Il ritorno di Trump testimonia di come la società americana stia esprimendo un rifiuto collettivo verso una rivoluzione che –essendo di natura essenzialmente speculativa – non sembra aver tenuto conto né delle implicazioni geopolitiche, energetiche e sociali né della domanda di mercato, gettandole basi di un masochistico processo di deindustrializzazione. In attesa di vedere come le decisioni di Trump ridisegneranno il contesto domestico, è legittimo chiedersi come l'eco della restaurazione americana si riverbererà sull'Europa, il cui intento di perseguire un primato nel quadrante della sostenibilità – per quanto legittimo nella sua ambizione politica – appare sempre meno realistico. La traiettoria del full electric deciso per decreto – che del Green Deal è l'applicazione automobilistica – ne è plastica dimostrazione. Il tentativo di forzare la domanda alterando il normale corso dello sviluppo tecnologico va considerato – alla luce delle previsioni e degl'investimenti – fallimentare. Logica vorrebbe che di fronte all'evidenza di un insuccesso così plateale gli obiettivi mutino. Ma quella che stiamo vivendo è una rivoluzione basata su premesse ideologiche: pensare che il principio di realtà ora prevalga è mera illusione. E infatti tocca sentire Olaf Scholz, il premier tedesco, porre come priorità l'istituzione di un fondo pubblico per spingere le declinanti immatricolazioni Bev, ribadendo con una certa faccia di bronzo che «l'elettrico è il futuro». Ora, è comprensibile la volontà del cancelliere di proteggere le Case tedesche dalle multe sulla CO2(la Volkswagen ha messo in bilancio 1,5 miliardi di euro per pagare le sanzioni). Ma non è chi non veda come l'esortazione di Bonn persegua un obiettivo di cortissimo respiro e privo di visione strategica. Anche perché non si capisce bene dove si voglia arrivare. Immaginiamo pure che entrino in vigore nuovi incentivi coordinati da Bruxelles per schiodare la quota Bev dal 15% in cui si è impantanata; e ammettiamo anche che si riesca a spingere la domanda fino al 30%. A che pro? In Europa, Musk verosimilmente userà i soldi dei crediti CO2 per abbassare i listini e spingere fuori mercato la concorrenza che – colmo dei colmi – lo sta finanziando.

In America, Trump – oltre ad alzare ulteriori barriere commerciali (il prossimo passo sarà cancellare l'area di libero scambio con Messico e Canada) –, per favorire proprio il sodale Musk toglierà gli aiuti alle elettriche che negli ultimi due anni hanno consentito a GM e Ford, pur perdendo denaro, d'infastidire la Tesla: anche se la quota Bev scenderà sotto il già omeopatico 8% attuale, la Casa di Austin tornerà in profittevole solitudine. In Cina, peggio che andar di notte: lì le elettriche straniere non le vogliono manco dipinte. I casi sono due: o si pensa di poter ribaltare gli equilibri sul mercato cinese (intento commendevole, ma onestamente utopico) oppure si è deciso di puntare tutto sul ricambio –con le elettriche, appunto – del parco europeo, massimizzando le logiche di marginalità perseguite negli ultimi cinque anni (nel mentre, i costruttori cinesi attaccheranno il mass market con modelli economici che noi abbiamo smesso di costruire). Se è così, fino al 2035 – quando la gente non avrà alternativa alle Bev – si continuerà a usare la leva degl'incentivi, che di fatto impone ai cittadini di finanziare il calmieramento di prezzi che l'industria stessa ha alzato per guadagnare di più? Sarebbe più giusto, visto che il phase out del 2035 è un dogma, togliere multe e incentivi – due facce della stessa medaglia – e cambiare il modo di calcolare le emissioni, per riportare in gara i motori termici puliti anche nel basso di gamma e allargare il bacino dei clienti (i giapponesi stanno già guardando alle potenzialità commerciali delle kei car). Mentre ai piani alti si decide di non decidere, macchine se ne vendono sempre meno (perché la gente non se le può permettere), il circolante cresce di numero e l'anzianità dei veicoli aumenta: nel solo 2024, in Italia, l'età media – già altissima – ha guadagnato un altro anno. Quindi all'ingiustizia sociale insita in una transizione abborracciata si aggiunge pure il paradosso di un ambiente in crescente sofferenza. Sarebbe ora che qualcuno trovasse il coraggio di dire che l'edificio del Fitfor 55 va ricostruito.
Revocherò il mandato (voluto da Joe Biden, ndr) sulle elettriche e i cittadini americani potranno finalmente comprare l'auto che vogliono». Il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non poteva essere più chiaro, nel proprio discorso d'investitura, sul futuro dell'auto americana. L'intenzione del tycoon è di fare strame di quanto messo in atto dalla precedente amministrazione, come dimostra l'immediata decisione di far uscire gli Usa dagli accordi globali sul clima e ritornare alle fonti fossili come motore dell'economia. Sia chiaro: Trump ha sempre rivendicato un'aperta ostilità al green, quindi non si può dire che tali posizioni siano inaudite. Oggi, però, le sue parole hanno un diverso valore, perché pongono idealmente termine a un lungo periodo in cui il solo avanzare timidi dubbi sulla green economy esponeva al ludibrio e all'emarginazione. Il ritorno di Trump testimonia di come la società americana stia esprimendo un rifiuto collettivo verso una rivoluzione che –essendo di natura essenzialmente speculativa – non sembra aver tenuto conto né delle implicazioni geopolitiche, energetiche e sociali né della domanda di mercato, gettandole basi di un masochistico processo di deindustrializzazione. In attesa di vedere come le decisioni di Trump ridisegneranno il contesto domestico, è legittimo chiedersi come l'eco della restaurazione americana si riverbererà sull'Europa, il cui intento di perseguire un primato nel quadrante della sostenibilità – per quanto legittimo nella sua ambizione politica – appare sempre meno realistico. La traiettoria del full electric deciso per decreto – che del Green Deal è l'applicazione automobilistica – ne è plastica dimostrazione. Il tentativo di forzare la domanda alterando il normale corso dello sviluppo tecnologico va considerato – alla luce delle previsioni e degl'investimenti – fallimentare. Logica vorrebbe che di fronte all'evidenza di un insuccesso così plateale gli obiettivi mutino. Ma quella che stiamo vivendo è una rivoluzione basata su premesse ideologiche: pensare che il principio di realtà ora prevalga è mera illusione. E infatti tocca sentire Olaf Scholz, il premier tedesco, porre come priorità l'istituzione di un fondo pubblico per spingere le declinanti immatricolazioni Bev, ribadendo con una certa faccia di bronzo che «l'elettrico è il futuro». Ora, è comprensibile la volontà del cancelliere di proteggere le Case tedesche dalle multe sulla CO2(la Volkswagen ha messo in bilancio 1,5 miliardi di euro per pagare le sanzioni). Ma non è chi non veda come l'esortazione di Bonn persegua un obiettivo di cortissimo respiro e privo di visione strategica. Anche perché non si capisce bene dove si voglia arrivare. Immaginiamo pure che entrino in vigore nuovi incentivi coordinati da Bruxelles per schiodare la quota Bev dal 15% in cui si è impantanata; e ammettiamo anche che si riesca a spingere la domanda fino al 30%. A che pro? In Europa, Musk verosimilmente userà i soldi dei crediti CO2 per abbassare i listini e spingere fuori mercato la concorrenza che – colmo dei colmi – lo sta finanziando.

In America, Trump – oltre ad alzare ulteriori barriere commerciali (il prossimo passo sarà cancellare l'area di libero scambio con Messico e Canada) –, per favorire proprio il sodale Musk toglierà gli aiuti alle elettriche che negli ultimi due anni hanno consentito a GM e Ford, pur perdendo denaro, d'infastidire la Tesla: anche se la quota Bev scenderà sotto il già omeopatico 8% attuale, la Casa di Austin tornerà in profittevole solitudine. In Cina, peggio che andar di notte: lì le elettriche straniere non le vogliono manco dipinte. I casi sono due: o si pensa di poter ribaltare gli equilibri sul mercato cinese (intento commendevole, ma onestamente utopico) oppure si è deciso di puntare tutto sul ricambio –con le elettriche, appunto – del parco europeo, massimizzando le logiche di marginalità perseguite negli ultimi cinque anni (nel mentre, i costruttori cinesi attaccheranno il mass market con modelli economici che noi abbiamo smesso di costruire). Se è così, fino al 2035 – quando la gente non avrà alternativa alle Bev – si continuerà a usare la leva degl'incentivi, che di fatto impone ai cittadini di finanziare il calmieramento di prezzi che l'industria stessa ha alzato per guadagnare di più? Sarebbe più giusto, visto che il phase out del 2035 è un dogma, togliere multe e incentivi – due facce della stessa medaglia – e cambiare il modo di calcolare le emissioni, per riportare in gara i motori termici puliti anche nel basso di gamma e allargare il bacino dei clienti (i giapponesi stanno già guardando alle potenzialità commerciali delle kei car). Mentre ai piani alti si decide di non decidere, macchine se ne vendono sempre meno (perché la gente non se le può permettere), il circolante cresce di numero e l'anzianità dei veicoli aumenta: nel solo 2024, in Italia, l'età media – già altissima – ha guadagnato un altro anno. Quindi all'ingiustizia sociale insita in una transizione abborracciata si aggiunge pure il paradosso di un ambiente in crescente sofferenza. Sarebbe ora che qualcuno trovasse il coraggio di dire che l'edificio del Fitfor 55 va ricostruito.
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