Editoriale l'Alfa Romeo e Arese di Raffele Laurenzi (Ruoteclassiche 01/2010)
"Comunque vada, Arese lo chiuderanno": aveva visto giusto l'ex presidente dell'Alfa Giuseppe Luraghi (1905-91) quando, alla fine del 1986, mentre la trattativa per la cessione della fabbrica alla Fiat era alle battute finali, si espresse sui destini dell'Alfa Romeo. Previsione facile per lui, che conosceva fin troppo bene le parti in causa: l'Iri di Romano Prodi e la Fiat di Cesare Romiti. Oggi quella profezia si compie, dopo vent'anni di declino che non sono bastati a stemperare in un tempo così lungo il trauma della chiusura.
Varcai per la prima volta la portineria del Centro Direzionale di Arese una mattina del 1974, poco dopo le dimissioni di Luraghi, inviato da Quattroruote per un servizio sulla qualità. Conobbi allora tecnici molto preparati. Alcuni lavoravano all'Alfa da una vita: vi erano entrati negli anni Trenta e Quaranta, freschi di laurea al Politecnico (la più antica università di Milano, fondata nel 1863) o di diploma del Feltrinelli, il prestigioso (all'epoca) Itis milanese, fondato nel 1908. Uomini dediti all'Alfa come un carabiniere all'Arma. Li univa l'orgoglio di fare, per molti versi, le migliori automobili del mondo e la mesta consapevolezza che, con l'arrivo dei "politici", le cose sarebbero cambiate. Tornai ad Arese nell'80: l'arrivo di Massaccesi (1978 ) aveva aperto la strada al progetto, dopo l'infelice esperienza di Pomigliano d'Arco, di un secondo stabilimento nel Sud, a Pratola Serra, per la costruzione di una vettura popolare (l'Arna, 1983) in collaborazione con la Nissan. Bocche cucite, ma era evidente che quei vecchi alfisti, cresciuti al Portello, facevano fatica a comprendere un progetto che rispondeva solo a logiche elettorali. Perchè poi un'auto destinata a un mercato saldamente presidiato dalla Fiat ? Era chiaro che, da quel momento, i destini delle loro Alfa sarebbero stati decisi dalla politica. Ai tecnici, che erano la ricchezza dell'azienda, non restava che assistere allo sfacelo, accelerato dalle continue e dissennate agitazioni sindacali, coordinate da un consiglio di fabbrica forte di 400 rappresentanti. Era convinzione diffusa che le BR potessero contare sulla solidarietà delle frange più estreme del movimento sindacale e la tensione era resa evidente dalle misure di sicurezza. In quel clima sinistro, avevo varcato la portineria di Arese per assistere a una prova di resistenza alla corrosione delle nuove lamiere in Zincrometal per l'Alfasud. Ma oramai era tardi: vallo a spiegare a un automobilista tedesco o francese che poteva fidarsi dell'Alfa Romeo, dopo che il poveretto aveva visto la propria Alfasud sbriciolarsi sotto l'attacco della ruggine... In quegli anni le perdite dell'Alfa erano fuori controllo: gli stabilimenti ingoiavano fiumi di denaro come le rocce calcaree le acque del Carso. Circolava una battuta: l'Alfa Romeo costerebbe di meno al contribuente se almeno i dipendenti, benché stipendiati, la smettessero di costruire automobili. Una situazione che nel 1986 avrebbe consentito a Prodi di consegnare l'Alfa Romeo alla Fiat per poco più di mille miliardi di lire (che pare non siano mai stati versati), oltre 700 miliardi di debiti. Fu subito chiaro che Arese rappresentasse per Torino una sorta di scomoda "dependance", edificata però su un'area in forte sviluppo, adiacente all'autostrada dei Laghi e oggi a pochi chilometri dall'aereoporto di Malpensa. A fine anni NOvanta, ad Arese i dipendenti erano scesi a 4000. Poi sempre di meno, nonostante le molte promesse. Presto qualcuno dirà: ma che ci fa il museo dell'Alfa in quel deserto di cemento ? Dopo che sarà stato spianato anche quello, dell'Alfa Romeo, che si fregia del trecentesco Biscione longobardo, a Milano non rimarrà traccia.
"Comunque vada, Arese lo chiuderanno": aveva visto giusto l'ex presidente dell'Alfa Giuseppe Luraghi (1905-91) quando, alla fine del 1986, mentre la trattativa per la cessione della fabbrica alla Fiat era alle battute finali, si espresse sui destini dell'Alfa Romeo. Previsione facile per lui, che conosceva fin troppo bene le parti in causa: l'Iri di Romano Prodi e la Fiat di Cesare Romiti. Oggi quella profezia si compie, dopo vent'anni di declino che non sono bastati a stemperare in un tempo così lungo il trauma della chiusura.
Varcai per la prima volta la portineria del Centro Direzionale di Arese una mattina del 1974, poco dopo le dimissioni di Luraghi, inviato da Quattroruote per un servizio sulla qualità. Conobbi allora tecnici molto preparati. Alcuni lavoravano all'Alfa da una vita: vi erano entrati negli anni Trenta e Quaranta, freschi di laurea al Politecnico (la più antica università di Milano, fondata nel 1863) o di diploma del Feltrinelli, il prestigioso (all'epoca) Itis milanese, fondato nel 1908. Uomini dediti all'Alfa come un carabiniere all'Arma. Li univa l'orgoglio di fare, per molti versi, le migliori automobili del mondo e la mesta consapevolezza che, con l'arrivo dei "politici", le cose sarebbero cambiate. Tornai ad Arese nell'80: l'arrivo di Massaccesi (1978 ) aveva aperto la strada al progetto, dopo l'infelice esperienza di Pomigliano d'Arco, di un secondo stabilimento nel Sud, a Pratola Serra, per la costruzione di una vettura popolare (l'Arna, 1983) in collaborazione con la Nissan. Bocche cucite, ma era evidente che quei vecchi alfisti, cresciuti al Portello, facevano fatica a comprendere un progetto che rispondeva solo a logiche elettorali. Perchè poi un'auto destinata a un mercato saldamente presidiato dalla Fiat ? Era chiaro che, da quel momento, i destini delle loro Alfa sarebbero stati decisi dalla politica. Ai tecnici, che erano la ricchezza dell'azienda, non restava che assistere allo sfacelo, accelerato dalle continue e dissennate agitazioni sindacali, coordinate da un consiglio di fabbrica forte di 400 rappresentanti. Era convinzione diffusa che le BR potessero contare sulla solidarietà delle frange più estreme del movimento sindacale e la tensione era resa evidente dalle misure di sicurezza. In quel clima sinistro, avevo varcato la portineria di Arese per assistere a una prova di resistenza alla corrosione delle nuove lamiere in Zincrometal per l'Alfasud. Ma oramai era tardi: vallo a spiegare a un automobilista tedesco o francese che poteva fidarsi dell'Alfa Romeo, dopo che il poveretto aveva visto la propria Alfasud sbriciolarsi sotto l'attacco della ruggine... In quegli anni le perdite dell'Alfa erano fuori controllo: gli stabilimenti ingoiavano fiumi di denaro come le rocce calcaree le acque del Carso. Circolava una battuta: l'Alfa Romeo costerebbe di meno al contribuente se almeno i dipendenti, benché stipendiati, la smettessero di costruire automobili. Una situazione che nel 1986 avrebbe consentito a Prodi di consegnare l'Alfa Romeo alla Fiat per poco più di mille miliardi di lire (che pare non siano mai stati versati), oltre 700 miliardi di debiti. Fu subito chiaro che Arese rappresentasse per Torino una sorta di scomoda "dependance", edificata però su un'area in forte sviluppo, adiacente all'autostrada dei Laghi e oggi a pochi chilometri dall'aereoporto di Malpensa. A fine anni NOvanta, ad Arese i dipendenti erano scesi a 4000. Poi sempre di meno, nonostante le molte promesse. Presto qualcuno dirà: ma che ci fa il museo dell'Alfa in quel deserto di cemento ? Dopo che sarà stato spianato anche quello, dell'Alfa Romeo, che si fregia del trecentesco Biscione longobardo, a Milano non rimarrà traccia.