Italiani scoprono nel Dna la protezione all'Hiv
A volte basta poco per impedire che un virus assai pericoloso e temuto come l'HIV, responsabile dell'AIDS, riesca a infettare un essere umano.
Per la precisione, bastano 14 basi in meno (tecnicamente una 'delezionè) in una specifica posizione del Dna per proteggere un neonato dal rischio di infettarsi con il virus in fase perinatale.
È questa l'importante scoperta dei genetisti dell'IRCCS materno-infantile Burlo Garofolo di Trieste, effettuata assieme ai colleghi degli istituti Materno-Infantil di Recife e dell'Università di Pernambuco, entrambi in Brasile. La ricerca si inserisce in un filone di studi che il Burlo Garofolo sta portando avanti da tempo in Brasile. Si tratta di studi che hanno per oggetto la trasmissione verticale (cioè da mamma a figlio) del virus HIV, una modalità di contagio che, contrariamente a quanto si pensava in passato, appare sempre più dipendente da un insieme complesso di fattori: ambientali, comportamentali, virali e, naturalmente, genetici.
La ricerca è stata appena pubblicata dalla rivista AIDS.
Il ruolo della genetica nell'infezione da HIV è emerso anni orsono dall'esame di soggetti adulti, quando si è scoperto che la perdita di un frammento di 32 basi nel gene 'CCR5' - una delezione chiamata appunto 'delta 32' - rendeva i soggetti resistenti all'infezione virale.
Successivamente altre regioni del genoma umano sono state chiamate in causa, l'ultima in ordine di tempo è proprio quella individuata dai ricercatori italiani e brasiliani: una variante genica (o polimorfismo) nel gene 'HLA-G' caratterizzata dalla mancanza di 14 basi.
«Abbiamo iniziato questo studio - ha spiegato Sergio Crovella, genetista del Burlo Garofolo e responsabile del progetto di collaborazione con gli istituti sudamericani - per cercare di capire meglio le dinamiche che consentono al virus dell'HIV di trasmettersi di madre in figlio al momento della nascita. L'osservazione diretta di molti casi indica che ciò non accade sempre: in altre parole, madri sieropositive possono dare alla luce figli che, pur essendo stati esposti al contagio, non si infettano e rimangono sieronegativi.
La domanda ovvia era: perchè?».
I ricercatori hanno così reclutato due gruppi di bambini nati tutti da madri sieropositive che non avevano ricevuto terapia antiretrovirale durante la gravidanza: uno formato da bambini che avevano contratto l'infezione (175 soggetti), l'altro da bambini che erano rimasti immuni nonostante l'esposizione perinatale (71). Entrambi i gruppi sono stati confrontati con 175 bambini di controllo (non esposti al rischio infezione, cioè nati da madri sane).
«Abbiamo analizzato il genoma di tutti i soggetti - ha proseguito Crovella - focalizzando l'attenzione su una zona in particolare, corrispondente a un gene chiamato 'HLA-G', che è considerato un importante mediatore della tolleranza materno-fetale, cioè di quel meccanismo che permette al feto di essere bene accetto dai sistemi di difesa materni, e di non essere conseguentemente espulso.
Precedenti studi avevano individuato una specifica variante genetica in questo gene, un polimorfismo costituito da una delezione/inserzione di 14 basi (due possibilità opposte nello stesso punto del DNA), e la nostra ricerca non solo l'ha confermata ma ha anche definito la sua correlazione con la suscettibilità all'infezione in fase perinatale. In particolare è emerso che i bambini con una delezione presente in omozigosi (D/D), cioè su entrambi i geni 'HLA-G' (ricevuti uno dal padre e uno dalla madre), risultavano più protetti di quelli con una combinazione di delezione/inserzione (D/I) o con la sola inserzione (I/I)».
L'analisi del DNA ha infatti confermato che, pur essendo nati da madri positive al virus, i bambini con il polimorfismo D/D nel gene HLA-G presentavano un minor rischio di essere infettati al momento del parto. «Non c'è dubbio che 14 basi rappresentano una goccia nell'oceano, se pensiamo ai tre miliardi di basi che formano il nostro genoma», ha sottolineato Crovella. «Tuttavia la frequenza con cui questo assetto genico compare nella popolazione generale (60 per cento) indica che la selezione naturale lo ha conservato per qualche motivo, che la sua presenza è vantaggiosa.
Nel nostro caso, sappiamo che protegge dal virus HIV riducendo il rischio di trasmissione verticale». Nella ricerca non è stato possibile includere campioni di DNA materno, precisano i ricercatori, tuttavia il ruolo di questo gene nella suscettibilità all'infezione da HIV appare inequivocabile. Nondimeno, è stata fatta un'ipotesi sul meccanismo con cui il polimorfismo sembra agire: la presenza della delezione, infatti, è associata a una maggiore produzione del gene corrispondente. Ciò crea una particolare risposta dell'organismo che riduce la produzione di composti ad attività pro-infiammatoria, i quali sono in parte responsabili dell'aumentato rischio di trasmissione verticale.
22 luglio 2009
A volte basta poco per impedire che un virus assai pericoloso e temuto come l'HIV, responsabile dell'AIDS, riesca a infettare un essere umano.
Per la precisione, bastano 14 basi in meno (tecnicamente una 'delezionè) in una specifica posizione del Dna per proteggere un neonato dal rischio di infettarsi con il virus in fase perinatale.
È questa l'importante scoperta dei genetisti dell'IRCCS materno-infantile Burlo Garofolo di Trieste, effettuata assieme ai colleghi degli istituti Materno-Infantil di Recife e dell'Università di Pernambuco, entrambi in Brasile. La ricerca si inserisce in un filone di studi che il Burlo Garofolo sta portando avanti da tempo in Brasile. Si tratta di studi che hanno per oggetto la trasmissione verticale (cioè da mamma a figlio) del virus HIV, una modalità di contagio che, contrariamente a quanto si pensava in passato, appare sempre più dipendente da un insieme complesso di fattori: ambientali, comportamentali, virali e, naturalmente, genetici.
La ricerca è stata appena pubblicata dalla rivista AIDS.
Il ruolo della genetica nell'infezione da HIV è emerso anni orsono dall'esame di soggetti adulti, quando si è scoperto che la perdita di un frammento di 32 basi nel gene 'CCR5' - una delezione chiamata appunto 'delta 32' - rendeva i soggetti resistenti all'infezione virale.
Successivamente altre regioni del genoma umano sono state chiamate in causa, l'ultima in ordine di tempo è proprio quella individuata dai ricercatori italiani e brasiliani: una variante genica (o polimorfismo) nel gene 'HLA-G' caratterizzata dalla mancanza di 14 basi.
«Abbiamo iniziato questo studio - ha spiegato Sergio Crovella, genetista del Burlo Garofolo e responsabile del progetto di collaborazione con gli istituti sudamericani - per cercare di capire meglio le dinamiche che consentono al virus dell'HIV di trasmettersi di madre in figlio al momento della nascita. L'osservazione diretta di molti casi indica che ciò non accade sempre: in altre parole, madri sieropositive possono dare alla luce figli che, pur essendo stati esposti al contagio, non si infettano e rimangono sieronegativi.
La domanda ovvia era: perchè?».
I ricercatori hanno così reclutato due gruppi di bambini nati tutti da madri sieropositive che non avevano ricevuto terapia antiretrovirale durante la gravidanza: uno formato da bambini che avevano contratto l'infezione (175 soggetti), l'altro da bambini che erano rimasti immuni nonostante l'esposizione perinatale (71). Entrambi i gruppi sono stati confrontati con 175 bambini di controllo (non esposti al rischio infezione, cioè nati da madri sane).
«Abbiamo analizzato il genoma di tutti i soggetti - ha proseguito Crovella - focalizzando l'attenzione su una zona in particolare, corrispondente a un gene chiamato 'HLA-G', che è considerato un importante mediatore della tolleranza materno-fetale, cioè di quel meccanismo che permette al feto di essere bene accetto dai sistemi di difesa materni, e di non essere conseguentemente espulso.
Precedenti studi avevano individuato una specifica variante genetica in questo gene, un polimorfismo costituito da una delezione/inserzione di 14 basi (due possibilità opposte nello stesso punto del DNA), e la nostra ricerca non solo l'ha confermata ma ha anche definito la sua correlazione con la suscettibilità all'infezione in fase perinatale. In particolare è emerso che i bambini con una delezione presente in omozigosi (D/D), cioè su entrambi i geni 'HLA-G' (ricevuti uno dal padre e uno dalla madre), risultavano più protetti di quelli con una combinazione di delezione/inserzione (D/I) o con la sola inserzione (I/I)».
L'analisi del DNA ha infatti confermato che, pur essendo nati da madri positive al virus, i bambini con il polimorfismo D/D nel gene HLA-G presentavano un minor rischio di essere infettati al momento del parto. «Non c'è dubbio che 14 basi rappresentano una goccia nell'oceano, se pensiamo ai tre miliardi di basi che formano il nostro genoma», ha sottolineato Crovella. «Tuttavia la frequenza con cui questo assetto genico compare nella popolazione generale (60 per cento) indica che la selezione naturale lo ha conservato per qualche motivo, che la sua presenza è vantaggiosa.
Nel nostro caso, sappiamo che protegge dal virus HIV riducendo il rischio di trasmissione verticale». Nella ricerca non è stato possibile includere campioni di DNA materno, precisano i ricercatori, tuttavia il ruolo di questo gene nella suscettibilità all'infezione da HIV appare inequivocabile. Nondimeno, è stata fatta un'ipotesi sul meccanismo con cui il polimorfismo sembra agire: la presenza della delezione, infatti, è associata a una maggiore produzione del gene corrispondente. Ciò crea una particolare risposta dell'organismo che riduce la produzione di composti ad attività pro-infiammatoria, i quali sono in parte responsabili dell'aumentato rischio di trasmissione verticale.
22 luglio 2009