La fine degli scambi corporativi
e le ragioni industriali del governo
IL CASO FIAT La fine degli scambi corporativi
e le ragioni industriali del governo
Sono giorni importanti nella storia dell?industria italiana. Dopo un periodo di incertezza, il governo Berlusconi sembra ormai orientato a non rinnovare gli incentivi pubblici per la rottamazione delle automobili. Gli incentivi, sostengono i ministri, aumentano artificialmente la domanda nell?immediato preparandone il calo nel futuro; e Sergio Marchionne si è detto d?accordo, pur avendoli invocati un paio di mesi fa. La sequenza degli scambi corporativi tra il più grande gruppo industriale italiano e lo Stato interventista sembra interrompersi, dopo un secolo di applausi e di polemiche. Ma la novità riguarda solo l?Italia, perché la Fiat ha riannodato la trama con la spesa pubblica grazie all?ingresso nella Chrysler, assistito dal Tesoro Usa, già alfiere del liberismo.
In realtà, la fine degli incentivi non dipende dalle ragioni di teoria economica sbandierate ieri: questo genere di aiuti è stato più volte rinnovato da governi di ogni colore, ovunque. La vera ragione è l?indisponibilità della Fiat a pagare il prezzo che chiedevano Silvio Berlusconi e il suo ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola: la salvaguardia delle fabbriche italiane, compresa Termini Imerese. La pretesa del governo non era peregrina. In Francia, il presidente Sarkozy ha condizionato il supporto pubblico alla Renault all?impegno del suo gerente, Carlos Ghosn, a non trasferire lavorazioni in Turchia. Chi mette capitali in un?impresa, sia pure sotto forma di incentivi, ha diritto di chiedere controprestazioni. Ma chi guida un?impresa può ragionare sulle alternative. E Marchionne è convinto di averne. Qualche centinaio di milioni di euro di incentivi, nella sua opinione, non valgono gli extracosti permanenti di impianti mal concepiti. Tanto più se il baricentro di Fiat Auto si va spostando fuori dall?Italia. Perché altrove sono i mercati più promettenti e i governi più generosi. Già oggi il Brasile è il Paese dove Fiat Auto vende di più.
E domani, se la scommessa sulla Chrysler andrà bene, molto peserà l?America. Nei piani presentati a Palazzo Chigi prima di Natale, la Fiat del futuro farà un po? più di 5 milioni di vetture, la metà con i marchi Chrysler. In Brasile e negli Usa si concentreranno i 3-4 quinti della produzione e delle vendite, e con margini più alti di quelli europei. Certo, il Brasile in passato ha avuto alti e bassi clamorosi; con Chrysler la Mercedes ci ha provato per anni e poi, dopo aver perso molte decine di miliardi di dollari, ha alzato bandiera bianca; l?Italia è un mercato conosciuto e a suo modo stabile. Ma Marchionne è convinto di potersela giocare. Il Brasile di Lula è un gigante che si è svegliato. Negli Usa la Fiat trova aiuti per 8 miliardi e una libertà di tagliare che le regala costi sconosciuti in Europa. E gli analisti, che un anno fa attribuivano a Chrysler un avviamento negativo, ora la valutano da un quarto a metà di Fiat Auto. Se sfonderà a Detroit, Marchionne passerà alla storia dell?industria senza essere mai stato un car guy, come gli americani chiamano gli ingegneri cresciuti a latte, benzina e motori. E a quel punto, tra due o tre anni, Chrysler sarà un magnete capace di attirare nella sua orbita la casa madre italiana. Poco importa se la Fiat Spa si troverà in società con i sindacati e il Tesoro degli Stati Uniti. Anzi, meglio: così avverrà il distacco da Fiat Auto che gli Agnelli sognano da qualche anno.
Del resto, Marchionne da tempo ripete che la Fiat Spa non metterà più un euro nell?auto perché questa attività non ripaga da anni il capitale investito. E l?Italia? Le vetture piccole danno margini piccoli, ha ricordato il leader della Fiat nell?intervista di ieri alla Stampa. La fine degli incentivi riporta l?attenzione sui margini operativi, e allora anche la promessa di trasferire la produzione della nuova Panda dalla Polonia a Pomigliano d?Arco sembra? senza ulteriori spiegazioni ?più una mossa politica che un progetto industriale. La svalutazione delle piattaforme per 125 milioni di euro, effettuata nel bilancio 2009, è un piccolo indizio dell?orientamento della produzione delle cilindrate maggiori oltre Atlantico. D?altra parte, perfino la General Motors sta esaminando il progetto di trasferire il quartier generale a Shanghai, visto che ormai è la Cina il Paese dove vende di più e meglio. I radicamenti territoriali omai cambiano in funzione dei mercati. E se le aziende non hanno investito abbastanza quando avrebbero dovuto per posizionarsi nelle fasce alte della produzione, come ha fatto la Volkswagen e non la Fiat, le sole forze capaci di contrastare la tendenza sono i governi: quelli che ne hanno i mezzi, un?élite della quale non fa parte il governo italiano.
Massimo Mucchetti