Fu anche colpa degli Alfisti,non sempre disposti ad accettare ritardi di risposta del motore qualche cv in meno e un po' di sound,io facevo parte di quelli infatti ancora ho un'Alfetta GTV 2.0L a carburatori con cui passo ore a regolarli.
Quella volta che l'Alfa Romeo "azzardò" l'iniezioneAlfa Romeo è stato tra gli ultimi marchi "premium" ad approcciare all'iniezione. A parte alcuni modelli "top", ed esigenze in mercati specifici, ne fece un uso generalizzato solo a partire dalla fine degli anni '80, con quasi dieci anni di ritardo rispetto alle concorrenti dirette (leggasi BMW) che da quasi un decennio avevano già abbandonato il carburatore. Benchè profondamente legati "al carburatore", in Alfa erano ben consci dei problemi di questa soluzione, soprattutto quando si andava alla ricerca dell'alimentazione singola su unità pluricilindriche, il che poneva non pochi problemi di messa a punto. Erano, poi, noti a tutti i limiti in tema di emissioni e consumi che, vista l'inutile complessità dei carburatori a controllo elettronico, premevano sulla più precisa alimentazione ad iniezione. Iniezione (meccanica) che i modelli di Arese venduti in USA utilizzavano già dai primissimi anni Settanta.
Il gap accumulato, da più parti visto come un segno di immobilismo tecnico da parte della Casa di Arese - afflitta da notissimi problemi di gestione - cela episodi di ben altro interesse. In realtà l'Alfa Romeo aveva in casa un attivissimo produttore di componenti elettromeccanici, la Spica, all'epoca suo fornitore dei sistemi di iniezione meccanica. E proprio con la Spica iniziò lo studio, a fine anni Sessanta, per un sistema di iniezione elettronica particolarmente efficiente. All'epoca anche la Bosch era agli albori con l'elettronica: la prima installazione su un'auto di serie era recentissima (1967) e la tecnologia era ancora "immatura". L'iniezione elettronica Bosch di allora si basava su un "hardware" direttamente derivato dai sistemi di alimentazione dei motori a gasolio, e per questo sovradimensionato e relativamente lento, mentre la Spica aveva realizzato l'elettroiniettore più piccolo e veloce del mondo. La (sconsociuta) vivacità di Spica e Alfa Romeo portò al deposito di una serie di brevetti in merito e tutto faceva presagire un imminente esordio della "italian-way" all'iniezione elettronica di benzina, trovato in Siemens il partner ideale per l'ingegnerizzazione della gestione elettronica.
Purtroppo, come è noto, nelle aziende del gruppo IRI del tempo si viaggiava a due velocità: mentre i tecnici erano brillanti e spregiudicati nello sperimentare, il resto dell'apparato, ben poco "commerciale", schiavo della politica e della burocrazia poneva dei freni incredibili all'innovazione. E l'enorme mole di studi e progetti tecnico-estetici che in quegli anni furono "abortiti" sul nascere, ne è la prova. Intanto il tempo passava inesorabile: l'Alfa si arenò sui suoi problemi di gestione e su una diatriba con i tecnici Siemens in merito all'uso di tecnologia analogica, che garantiva maggiore stabilità ai sistemi di gestione (metodo Siemens) o di tecnologia digitale, che permetteva maggior duttilità dei circuiti, che diventavano riprogrammabili (metodo Alfa Romeo), che è poi la via usata sui sistemi moderni. Alla fine il partner fu trovato in una azienda della cintura milanese, che produceva circuiti integrati: la SGS (oggi parte della ST-Microelectronics). Insomma, tutto era pronto, ma si era già nel 1976 e la "leggenda" narra che la Bosch - già fornitore di numerosi componenti per la Casa di Arese e ormai leader nel campo dell'alimentazione ad iniezione - a conoscenza di questo progetto che andava avanti da alcuni anni, esplicitò il suo parere negativo. L'ipotesi di una collisione negli interessi degli attori è più che plausibile: la cordata Spica-Alfa Romeo-Siemens-SGS sarebbe diventata per Bosch un concorrente temibile, soprattutto alla luce dei futuri affinamenti del sistema italo-tedesco. Dall'apertura dei tavoli, intanto, erano trascorsi quasi dieci anni, ma si continuava a studiare sul nuovo sistema sperando di convincere la dirigenza della bontà e vederlo prima o poi montato almeno su un modello della gamma Alfa.
Definita la parte dedicata all'alimentazione, l'uso di tecnologia digitale permise di estendere il controllo all'intera gestione del motore: con il non indifferente contributo del CNR iniziò la sperimentazione del sistema modulare, applicata al quattro cilindri due litri. Quando era richiesta poca potenza, la centralina di gestione tagliava l'alimentazione a due dei quattro cilindri, permettendo un miglioramento dell'efficienza. Il nuovo sistema di gestione integrato, denominato C.E.M (Controllo Elettronico Motore), era gestito da un unico "calcolatore", fu montato su un lotto di dieci Alfetta in allestimento "Li America" e date in uso, nel 1981, ad altrettanti tassisti di Milano, tester d'eccezione per questa nuova tecnologia. Nel 1982 fu approntata anche una versione commerciale, basata sull'allestimento Alfetta 2.0 '82 e denominata Alfetta 2.0 CEM: era dotata di un pannello di controllo che permetteva di monitorare lo stato dell'impianto e l'eventuale avaria dei singoli circuiti di controllo, con la possibilità di escludere manualmente, a discrezione del conducente, il sistema modulare. Di questa particolare versione, tra il 1982 e il 1983, furono distribuite alcune centinaia di unità, sicuramente meno di mille, di cui ben poche sopravvissute.
Contemporaneamente, alla luce dell'introduzione del sistema modulare se ne studiava l'installazione sul motore V6 da due litri e mezzo, certamente più adatto ad una tecnologia del genere. I primi test furono svolti su un'unità aspirata di derivazione Gtv6: si compararono alle classiche testate emisferiche Alfa Romeo, nuove teste motore con camere di combustione Heron, si studiarono i rapporti di compressione più adatti e si cercò di ottimizzare la circolazione del fluido di raffreddamento per scongiurare il surriscaldamento localizzato e i fenomeni di detonazione. La modularità di funzionamento interessava le due bancate, delle quali una era trascinata ed entrava in funzione solo quando necessario. L'ottimizzazione giunse un paio d'anni dopo, con un'originale e definitiva modifica su un V6 2.5 di derivazione Alfa 90 Quadrifoglio Oro. La bancata di sinistra, sempre attiva, aveva un rapporto di compressione elevato (12:1) e metteva in movimento un piccolo turbocompressore che alimentava esclusivamente la bancata opposta, dotata di basso rapporto di compressione (8.3:1) che produceva lavoro solo quando necessario. Questa particolare unità dalla mezza sovralimentazione era dotata di altre peculiarità, come i corpi farfallati diversi (alimentazione singola sulla bancata sinistra e farfalla unica per quella opposta) gestiti da motorini passo-passo (praticamente un drive-by-wire con vent'anni di anticipo) per ottimizzare il funzionamento nel passaggio da tre a sei cilindri, che doveva avvenire gradualmente. La bancata sovralimentata, inoltre, non soffriva di alcun turbolag visto che la turbina era sempre in pressione, alimentata dai gas di scarico della parte opposta del motore. Con questo motore fu allestito un muletto su base Gtv6, che vantava una potenza di 192 CV a 5800 giri e una coppia di 26 kgm a 4500 giri. Pur con un'elettronica rudimentale - per i canoni moderni - con banchi di memoria da soli 8 kB, si riuscirono ad ottenere 32 cavalli in più e consumi ridotti del 34% rispetto al modello d'origine. Le potenzialità di tale tecnologia erano enormi: per semplice raffronto, nel 2003 l'ultima evoluzione industriale dello stesso propulsore due litri e mezzo, 24v, aspirato, ma con elettronica migliaia di volte più raffinata, vantava la stessa potenza a 6300 giri e una coppia inferiore con circa 23 kgm a 5000 giri.
Il ciclo di sperimentazione dell'iniezione made in Alfa si chiuse nel 1985 con l'entrata in produzione della "Alfa 90 2.0 V6 iniezione", che abbandonò ogni velleità modulare, ma rinchiudeva in sé i migliori risultati di oltre quindici anni di studi: l'iniezione-accensione elettronica Spica-Alfa Romeo e l'alimentazione singola mediante sei corpi farfallati. Produrla fu una scelta assolutamente simbolica: da qualche anno la Casa di Arese si era "piegata" al mercato adottando l'iniezione Bosch - che ormai forniva sistemi particolarmente duttili - prima sul V6 e quindi, accoppiato al variatore di fase, sul quattro cilindri due litri dell'Alfetta Quadrifoglio (maturando, con il variatore di fase, un altro primato tecnologico).
In un lustro tutta la gamma Alfa Romeo sarà alimentata con sistemi di iniezione elettronica Bosch-Jetronic/Motronic e del sistema CEM restarono pochi - validi - concetti in seno alla Siemens Automotive, che li svilupperà autonomamente negli anni a venire. Ma questa è un'altra storia.
Quella volta che l'Alfa Romeo "azzardò" l'iniezioneAlfa Romeo è stato tra gli ultimi marchi "premium" ad approcciare all'iniezione. A parte alcuni modelli "top", ed esigenze in mercati specifici, ne fece un uso generalizzato solo a partire dalla fine degli anni '80, con quasi dieci anni di ritardo rispetto alle concorrenti dirette (leggasi BMW) che da quasi un decennio avevano già abbandonato il carburatore. Benchè profondamente legati "al carburatore", in Alfa erano ben consci dei problemi di questa soluzione, soprattutto quando si andava alla ricerca dell'alimentazione singola su unità pluricilindriche, il che poneva non pochi problemi di messa a punto. Erano, poi, noti a tutti i limiti in tema di emissioni e consumi che, vista l'inutile complessità dei carburatori a controllo elettronico, premevano sulla più precisa alimentazione ad iniezione. Iniezione (meccanica) che i modelli di Arese venduti in USA utilizzavano già dai primissimi anni Settanta.
Il gap accumulato, da più parti visto come un segno di immobilismo tecnico da parte della Casa di Arese - afflitta da notissimi problemi di gestione - cela episodi di ben altro interesse. In realtà l'Alfa Romeo aveva in casa un attivissimo produttore di componenti elettromeccanici, la Spica, all'epoca suo fornitore dei sistemi di iniezione meccanica. E proprio con la Spica iniziò lo studio, a fine anni Sessanta, per un sistema di iniezione elettronica particolarmente efficiente. All'epoca anche la Bosch era agli albori con l'elettronica: la prima installazione su un'auto di serie era recentissima (1967) e la tecnologia era ancora "immatura". L'iniezione elettronica Bosch di allora si basava su un "hardware" direttamente derivato dai sistemi di alimentazione dei motori a gasolio, e per questo sovradimensionato e relativamente lento, mentre la Spica aveva realizzato l'elettroiniettore più piccolo e veloce del mondo. La (sconsociuta) vivacità di Spica e Alfa Romeo portò al deposito di una serie di brevetti in merito e tutto faceva presagire un imminente esordio della "italian-way" all'iniezione elettronica di benzina, trovato in Siemens il partner ideale per l'ingegnerizzazione della gestione elettronica.
Purtroppo, come è noto, nelle aziende del gruppo IRI del tempo si viaggiava a due velocità: mentre i tecnici erano brillanti e spregiudicati nello sperimentare, il resto dell'apparato, ben poco "commerciale", schiavo della politica e della burocrazia poneva dei freni incredibili all'innovazione. E l'enorme mole di studi e progetti tecnico-estetici che in quegli anni furono "abortiti" sul nascere, ne è la prova. Intanto il tempo passava inesorabile: l'Alfa si arenò sui suoi problemi di gestione e su una diatriba con i tecnici Siemens in merito all'uso di tecnologia analogica, che garantiva maggiore stabilità ai sistemi di gestione (metodo Siemens) o di tecnologia digitale, che permetteva maggior duttilità dei circuiti, che diventavano riprogrammabili (metodo Alfa Romeo), che è poi la via usata sui sistemi moderni. Alla fine il partner fu trovato in una azienda della cintura milanese, che produceva circuiti integrati: la SGS (oggi parte della ST-Microelectronics). Insomma, tutto era pronto, ma si era già nel 1976 e la "leggenda" narra che la Bosch - già fornitore di numerosi componenti per la Casa di Arese e ormai leader nel campo dell'alimentazione ad iniezione - a conoscenza di questo progetto che andava avanti da alcuni anni, esplicitò il suo parere negativo. L'ipotesi di una collisione negli interessi degli attori è più che plausibile: la cordata Spica-Alfa Romeo-Siemens-SGS sarebbe diventata per Bosch un concorrente temibile, soprattutto alla luce dei futuri affinamenti del sistema italo-tedesco. Dall'apertura dei tavoli, intanto, erano trascorsi quasi dieci anni, ma si continuava a studiare sul nuovo sistema sperando di convincere la dirigenza della bontà e vederlo prima o poi montato almeno su un modello della gamma Alfa.
Definita la parte dedicata all'alimentazione, l'uso di tecnologia digitale permise di estendere il controllo all'intera gestione del motore: con il non indifferente contributo del CNR iniziò la sperimentazione del sistema modulare, applicata al quattro cilindri due litri. Quando era richiesta poca potenza, la centralina di gestione tagliava l'alimentazione a due dei quattro cilindri, permettendo un miglioramento dell'efficienza. Il nuovo sistema di gestione integrato, denominato C.E.M (Controllo Elettronico Motore), era gestito da un unico "calcolatore", fu montato su un lotto di dieci Alfetta in allestimento "Li America" e date in uso, nel 1981, ad altrettanti tassisti di Milano, tester d'eccezione per questa nuova tecnologia. Nel 1982 fu approntata anche una versione commerciale, basata sull'allestimento Alfetta 2.0 '82 e denominata Alfetta 2.0 CEM: era dotata di un pannello di controllo che permetteva di monitorare lo stato dell'impianto e l'eventuale avaria dei singoli circuiti di controllo, con la possibilità di escludere manualmente, a discrezione del conducente, il sistema modulare. Di questa particolare versione, tra il 1982 e il 1983, furono distribuite alcune centinaia di unità, sicuramente meno di mille, di cui ben poche sopravvissute.
Contemporaneamente, alla luce dell'introduzione del sistema modulare se ne studiava l'installazione sul motore V6 da due litri e mezzo, certamente più adatto ad una tecnologia del genere. I primi test furono svolti su un'unità aspirata di derivazione Gtv6: si compararono alle classiche testate emisferiche Alfa Romeo, nuove teste motore con camere di combustione Heron, si studiarono i rapporti di compressione più adatti e si cercò di ottimizzare la circolazione del fluido di raffreddamento per scongiurare il surriscaldamento localizzato e i fenomeni di detonazione. La modularità di funzionamento interessava le due bancate, delle quali una era trascinata ed entrava in funzione solo quando necessario. L'ottimizzazione giunse un paio d'anni dopo, con un'originale e definitiva modifica su un V6 2.5 di derivazione Alfa 90 Quadrifoglio Oro. La bancata di sinistra, sempre attiva, aveva un rapporto di compressione elevato (12:1) e metteva in movimento un piccolo turbocompressore che alimentava esclusivamente la bancata opposta, dotata di basso rapporto di compressione (8.3:1) che produceva lavoro solo quando necessario. Questa particolare unità dalla mezza sovralimentazione era dotata di altre peculiarità, come i corpi farfallati diversi (alimentazione singola sulla bancata sinistra e farfalla unica per quella opposta) gestiti da motorini passo-passo (praticamente un drive-by-wire con vent'anni di anticipo) per ottimizzare il funzionamento nel passaggio da tre a sei cilindri, che doveva avvenire gradualmente. La bancata sovralimentata, inoltre, non soffriva di alcun turbolag visto che la turbina era sempre in pressione, alimentata dai gas di scarico della parte opposta del motore. Con questo motore fu allestito un muletto su base Gtv6, che vantava una potenza di 192 CV a 5800 giri e una coppia di 26 kgm a 4500 giri. Pur con un'elettronica rudimentale - per i canoni moderni - con banchi di memoria da soli 8 kB, si riuscirono ad ottenere 32 cavalli in più e consumi ridotti del 34% rispetto al modello d'origine. Le potenzialità di tale tecnologia erano enormi: per semplice raffronto, nel 2003 l'ultima evoluzione industriale dello stesso propulsore due litri e mezzo, 24v, aspirato, ma con elettronica migliaia di volte più raffinata, vantava la stessa potenza a 6300 giri e una coppia inferiore con circa 23 kgm a 5000 giri.
Il ciclo di sperimentazione dell'iniezione made in Alfa si chiuse nel 1985 con l'entrata in produzione della "Alfa 90 2.0 V6 iniezione", che abbandonò ogni velleità modulare, ma rinchiudeva in sé i migliori risultati di oltre quindici anni di studi: l'iniezione-accensione elettronica Spica-Alfa Romeo e l'alimentazione singola mediante sei corpi farfallati. Produrla fu una scelta assolutamente simbolica: da qualche anno la Casa di Arese si era "piegata" al mercato adottando l'iniezione Bosch - che ormai forniva sistemi particolarmente duttili - prima sul V6 e quindi, accoppiato al variatore di fase, sul quattro cilindri due litri dell'Alfetta Quadrifoglio (maturando, con il variatore di fase, un altro primato tecnologico).
In un lustro tutta la gamma Alfa Romeo sarà alimentata con sistemi di iniezione elettronica Bosch-Jetronic/Motronic e del sistema CEM restarono pochi - validi - concetti in seno alla Siemens Automotive, che li svilupperà autonomamente negli anni a venire. Ma questa è un'altra storia.